Dopo la sentenza, il 70% delle richieste di oblio sono respinte da BigG. E di queste solo 50 finiscono nelle mani del Garante. Quali le ragioni?

 

Tutto ebbe inizio nel maggio 2014, quando una storica sentenza stabilì che Google doveva rispettare il diritto all’oblio sui dati personali. Da quel momento in poi, il colosso di Mountain View ha dovuto ascoltare (ed eventualmente accogliere) le richieste di cancellazione da parte dei cittadini europei di un link presente nelle proprie pagine di ricerca.

 

Ad un anno abbondante dalla decisione della corte di giustizia dell’Unione Europea, Google ha rilasciato un rapporto in cui appaiono una serie di dati sulle richieste di rimozione URL, divisi per i principali paesi:

Dati di google con richieste

In Italia, come emerge dal grafico originale, su poco più di 25000 richieste avanzate, il motore di ricerca ne ha accettate meno del 30%, ovvero circa 7500.

 

Decide Google?

La prima domanda sorge spontanea: è giusto che a decidere su un tema così spinoso sia proprio Big G o è un chiaro caso di decadenza della democrazia? Proviamo a rispondere coi numeri. Del 70% delle richieste rifiutate (pari all’incirca a 18.000…), solamente cinquanta sono state impugnate dagli utenti e messe in mano al Garante della Privacy.

 

A cosa è dovuta questa sproporzione tra richieste effettuate a Google e successivi ricorsi al Garante? I soggetti che hanno chiesto la deincizzazione  avevano i numeri per farlo o sono stati tentativi che lasciavano il tempo che trovavano?

 

Anche in questo caso, in mancanza delle motivazioni delle singole richieste degli utenti, proviamo a guardare ai numeri. Il Garante ci informa che, dei cinquanta casi presentati all’Authority, solo in un caso su tre si è ritenuto che il motore di ricerca non abbia concesso l’oblio a chi invece lo meritava.

 

Numeri alla mano, possiamo quindi sbilanciarci e ritenere che, tutto sommato, le decisioni di Google sul diritto all’oblio si siano rivelate sostanzialmente corrette.