Filter bubble, ovvero ciò che i social network ti nascondono grazie all’algoritmo
C’è chi sostiene che viviamo in una realtà distorta dall’algoritmo del filter bubble, in una bolla di notizie filtrate per noi dai social network.
Come ad esempio l’attivista politico Eli Pariser, autore del libro Il Filtro, che ha analizzato le dinamiche con cui i colossi della comunicazione mondiale, attraverso l’algoritmo che determina la visibilità di un post nel nostro newsfeed, influenzano la nostra visione e percezione del mondo. Gli esempi più noti sono ovviamente Google, Facebook e Twitter, e da poco anche Instagram.
Ma analizziamo in dettaglio la teoria del filter bubble:
La bolla di filtraggio è il risultato del sistema di personalizzazione dei risultati di ricerche su siti che registrano la storia del comportamento dell’utente. Questi siti sono in grado di utilizzare informazioni sull’utente (come posizione, click precedenti, ricerche passate) per scegliere selettivamente tra tutte le risposte quelle che vorrà vedere l’utente stesso. L’effetto è di isolare l’utente da informazioni che sono in contrasto con il suo punto di vista, effettivamente isolandolo nella sua bolla culturale o ideologica. (Fonte: Wikipedia)
Uno scenario inquietante, se pensiamo che in questo modo non solo non abbiamo più visibilità di opinioni diverse dalle nostre, ma non abbiamo neanche più libertà di scegliere a cosa interessarci o meno, perché tutto ciò a cui teniamo o che potenzialmente incontra il nostro interesse ci viene offerto su un piatto d’argento, senza sforzi di ricerca e impegno di comprensione. Il risultato è quindi un mondo pieno di persone isolate nelle loro bolle di conoscenza, con le loro convinzioni e la loro cultura, che non hanno percezione degli altri e della loro diversità.
Ma la realtà è davvero cosi catastrofica?
Abbiamo già analizzato cosa significhi realmente per un social network l’introduzione di un algoritmo: in termini economici porta ad aumentare i guadagni, perché gli utenti passano più tempo in una realtà virtuale che rispecchia i loro interessi e quindi visualizzano più pubblicità. Certo, se la guardiamo in termini di libertà personale e di scelta tutto ciò non rappresenta una prospettiva idilliaca: ci fa sembrare “schiavi” che subiscono le decisioni degli altri. In un certo senso è vero quando parliamo di marketing: in fondo la pubblicità è l’anima del commercio, e da sempre un prodotto per essere venduto deve essere mostrato.
Ma se andiamo un po’ più a fondo nella questione del filter bubble potremmo certamente tutti concordare che, così come nella vita virtuale, anche nella nostra vita reale noi abbiamo dei filtri. Non parliamo con tutti, non ci piacciono tutti allo stesso modo e la pensiamo diversamente anche da persone con le quali siamo cresciuti.
E allora magari ci risulterà un po’ inquietante avere coscienza che Google filtra i risultati delle nostre ricerche per “spillarci soldi” ma non è poi così fuori luogo che aggregatori come i social network, in cui sì visualizziamo pubblicità, ma che spesso sono “piazze” in cui incontriamo amici e dove scambiamo chiacchiere siano luoghi che in fondo ci assomigliano e dove ci piace passare del tempo. Chi andrebbe a vedere un film con un attore che odia o si soffermerebbe a parlare con una persona antipatica?
Insomma, l’importante è aver coscienza di vivere una realtà virtuale personalizzata e fare sempre affidamento sul buon senso e su una corretta informazione per capire il mondo: e questa purtroppo, non la si trova più tanto spesso neanche sulle grandi testate giornalistiche, figuriamoci se la possiamo trovare sui caotici social!